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Associazione Gea
Psicologia Analitica e Filosofia Sperimentale
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GeaBlog: Riflessioni e Pensieri in libertà
  dal 21 al 15   
Ada Cortese Nov 2011
La Morte assistita

Considerazioni storico-religiose e riflessioni

Ancora morte assistita, ancora Zurigo, ancora sulle holding come "Exit", "Dignitas", ancora parole attorno al “business” della morte, ancora parole sull'arroganza dell'individuo che deciderebbe egoicamente di gettare via, dopo averne ampiamente fatto uso (o no) del “dono più grande di Dio”: la vita, quando essa si fa pesante, insensata, dolorosa.
Un grande utopista dei nostri giorni (1) se ne è andato e parole tante, forse più di quanto avrebbe voluto, sono state spese attorno alla sua decisione.
Era una persona che simboleggiava per me quella parte della politica utopica in cui da giovane mi piaceva ritrovarmi e che dava il fondamento e la direzione evolutiva di ogni altra filosofia e di ogni altro gesto, almeno sul piano ideale. Mi piaceva cercare il luogo che non c'era e sperare sarebbe venuto il giorno della condivisione. Forse a volte arriva, nel sottosuolo certo dell'Anima e non nel mondo sociale e politico. La morte della compagna gli ha fatto crollare la forza per resistere contro la durezza della vita. Hanno parlato di grande depressione. In ogni caso, hanno detto, la vita gli si era svuotata di senso.
Non sempre però è l'insensatezza, a volte è l'enorme sofferenza fisica o la prospettiva di passarvi attraverso e nella più totale impotenza a portare le persone a decidere di andarsene.

L'impossibilità di volare via come un angelo, con una dolce morte, spesso porta la gente a sfracellarsi come è accaduto ad un amato regista(2) che già si sentiva costretto nella morsa della burocrazia e della procedura medicale, ricoverato in ospedale dove gli avevano diagnosticato un cancro.
Altri decidono di morire altrettanto violentemente ma per povertà.
Anche nel modo di andarsene spesso la disponibilità dei soldi decide.


Da dove ci arriva l'imbarazzo e il rifiuto istintivo della “scelta suicida”?
Anche quando accettiamo o tentiamo di comprendere (perlomeno) la “scelta suicida”, siamo immersi da un lato nella tradizione culturale cattolica e dall'altro istintivamente nell'impulso di autoconservazione che provoca repulsione verso tutto ciò che sconvolge e stravolge il naturale ordine della vita.
La religione cattolica rifiuta il suicidio a partire dai suoi due grandi padri teologi: Agostino e Tommaso.
Agostino rifiuta il suicidio a partire dal quinto comandamento che recita il divieto di uccidere: nessuno, nemmeno te stesso. Quindi il suicidio è peccato mortale perchè è omicidio di se stessi, trasgressione all'ordine di Dio.
Tommaso riprende altri argomenti anche di carattere greco e vieta il suicidio per tre motivi: 1) perchè contrasta con l'ordine naturale, in quanto l'uomo che si uccide va contro il principio naturale, l'istinto di autoconservazione, legge naturale per eccellenza; 2) lo rifiuta perchè sarebbe una rivolta contro la società, un ritiro unilaterale dalla società e, 3) presente già in Platone: esso coincide con il rifiuto del dono divino della vita. Dio è padrone della nostra vita, noi dunque non possiamo disporre di questo dono.

Ma non è sempre stato così e mai così radicale dapperttutto. Se infatti, viaggiamo indietro nel tempo, e ci chiediamo cosa ne pensassero i Greci e i Latini del suicidio, troviamo altro atteggiamento: molto più tollerante.
Certo, tra i filosofi ci sono posizioni diverse: gli Stoici per es. erano favorevoli. Platone e Aristotele erano sostanzialmente contro. Però v'era un atteggiamento di fondo che è molto più tollerante come ci mostrano i numerosi casi di suicidio che sono presenti nella letteratura e nella mitologia greca.
Ma tornando al mondo della cristianità che ci appartiene e analizzando alcune conseguenze dei principi fissati da Agostino e da Tommaso, vediamo che esse, per esempio in epoca medioevale, produssero nella legislazione giuridica di quel tempo risposte assai dure sui modi ed usi di rapportarsi al suicida e alla sua stessa salma. Esiste una tradizione dura e punitiva, purtroppo in parte dovuta anche alle sanzioni della Chiesa, come per esempio il rifiuto delle esequie religiose, il rifiuto del luogo consacrato.
E questo fino a non molti anni fa.
Non solo: forse e certo anche in forza delle paure irrazionali tipiche delle persone e della tradizione popolare verso la morte violenta, si giunse a delle forme di rapporto con il corpo del suicida davvero incredibili per esempio lo si riesumava per condannarlo, a volte lo si seppelliva ai crocicchi delle strade piantandogli un paletto nel petto perchè le persone avevano paura che ritornasse come fantasma stante che era morto violentemente.

Altra conseguenza, forse la pena più grave che colpiva purtroppo anche gli innocenti, consisteva nella confisca dei beni del suicida, pratica che durò fino all'inizio del secolo XIX. C'erano quindi delle conseguenze molto gravi anche per gli stessi parenti e molto comode per di quei beni alfine godeva.
Ci si può chiedere allora se ci sia mai stato nella storia che ci appartiene un mutamento di atteggiamento, un cambio di prospettiva. Ed in realtà sì c'è stato: esso si manifesta con il Rinascimento e con l'Illuminismo quando l'uomo torna al centro della attenzione, quando i bisogni dell'individuo e i diritti dell'uomo come quello alla felicità tornano al centro.
A poco a poco questo grande rivolgimento culturale segna un cambio di prospettiva che però non incide in maniera decisiva né nella legislazione, né nella teologia.
Il vero mutamento si ha soltanto con lo sviluppo delle scienze umane in particolare della sociologia e della psicologia nel secolo XX grazie dunque al pensiero di Emile Durkheim e di Sigmund Freud.
Indubbiamente lo sviluppo delle scienze umane ha permesso di capire la dimensione della sofferenza come principale coazione al suicidio. Esso ha fatto cioè piazza pulita della vecchia concezione del suicida come di colui che si uccide per orgoglio, per superbia, suicidio quindi come rifiuto del dono di dio. Si è cominciato invece a vedere la sofferenza e quindi altre concause che determinano l'atto. Così si è diventati molto più tolleranti e comprensivi verso il suicida pure se da un punto di vista prettamente teologico anche nel recentissimo catechismo della chiesa cattolica vengono fondamentalmente ripetuti i vecchi concetti di Agostino e di Tommaso per cui il suicida è un peccatore salvo i casi di incapacità di intendere e di volere. Dal punto di vista teologico in senso stretto pare che nulla sia cambiato. E ciò è anche comprensibile considerando la cosa nell'ottica pastorale.

La letteratura sul suicidio è ovviamente sterminata.
Nel lavoro di Roberto Garaventa “Il suicidio nell'età del nichilismo” a cui abbiamo qui attinto a piene mani, ancora attuale seppure di parecchi anni fa, vengono riuniti tre percorsi: Goethe, Leopardi e Dostoevskij ed è forse su Dostoevskij che ci si può qui soffermare proprio perchè più immerso nella prospettiva cristiana che ci appartiene e/o ci problematizza. E Dostoevskij cita in un suo racconto breve intitolato “La mite” la storia triste di una sartina che non riuscendo più a vivere (orfana, matrimonio coatto con un usuraio ecc.) si butta dalla finestra ma, nel buttarsi, ella tiene stretta a sé una icona. Da ciò si può pensare che motivo del suicidio non è solo atto di chi è infelice e non ha più sensibilità etico-religiosa, ma può essere anche e purtroppo atto di una persona che ha profonda fede religiosa ma che non vede più scappatoie.
Nella riflessione che porta avanti Garaventa nel suo lavoro ritrovo il frutto della consapevolezza a cui il lavoro di analista ha condotto anche me: tanti anni fa, a inizio anni 80 mi sono ritrovata a seguire un giovane uomo, sui 30 – 35 bello intelligente colto, con possibilità di carriera in Italia e in America (era uno storico americanista) colpito però da “grave depressione”. Facemmo un percorso analitico di circa un anno e mezzo, ma quando un giorno egli, che prendeva psicofarmaci finì fuori dalla finestra e morì in molti parlarono di suicidio. Io stessa attraversai un grande tormento interiore, mi interrogai sulla mia competenza, sulle mie qualità professionali pur sentendo che in qualche modo ero stata in forte rapporto interiore con lui. Mi aiutarono i suoi familiari paradossalmente con tutto l'affetto e la stima che mi espressero e la loro testimonianza rispetto ad una maggiore serenità di S. da quando aveva iniziato il percorso insieme a me, a superare lo sgomento e ad approdare ad una nuova percezione del suicidio, priva di ogni connotazione giudicante. Anche io attraversai in forma personale l’angoscia dei secoli verso il suicidio e il conflitto che vedeva da un lato un ego presuntuoso e vigliacco che sfugge alla contraddittorietà della vita (ma chi ero io, chi siamo noi per ipotizzare cose del genere?) e la pena dall'altra per la disperazione del suicida. Non si seppe mai se fu vero suicidio o stordimento da psicofarmaci che lo fece cadere dalla finestra contro la quale era in qualche modo collocato il suo letto.
Ma quanto alle cause non penso più sia ribellione e peccato di orgoglio come, abbiamo visto, il suicidio era tradizionalmente inteso. Lo intuisco invece come massima liberazione e come invocazione di senso. Ci si butta e si muore per liberarsi di una struttura psicologica troppo riduttiva, forse egoica essa stessa, ma per ricercare un senso più aperto, il Sé forse, proprio come la sartina si buttava e moriva appellandosi a Dio, alla ricerca di un più vasto orizzonte….


….Nel suicida c'è spesso molto amore per la vita.
Schopenhauer lo dice chiaramente, il suicida in realtà non vuol morire: vuole una vita diversa da quella che gli è capitata in sorte. Questo è il problema.
Altre volte, nell'ottica storico-religiosa, si pensa che il suicida sia mosso da una indicazione divina. E' quello che in fondo dice Agostino quando deve giustificare i suicidi che si trovano nel Vecchio Testamento come per esempio il suicidio di Sansone: egli giustifica questi suicidi dicendo che in qualche modo Dio deve aver parlato loro e deve aver dato loro quella indicazione.
A questo punto l'associazione con i martiri viene alla mente spontanea: sembrerebbe esserci un elemento che li collega alla dinamica del suicida. Emerge un grosso interrogativo: dove sia il limite che demarca il martirio e il suicidio. Non a caso Agostino si era espresso in maniera così violenta contro il suicidio: perchè aveva avanti a sé una serie di sette come per esempio i “donatisti” e altri che usavano il suicidio come testimonianza di fede.
Oggi lo vediamo in forma di fondamentalismo.
Così la differenza tra martirio e suicidio è assai relativa: chi vuole testimoniare la propria fede fino in fondo ha in qualche modo forse una predisposizione suicida …
Dietrich Bonhoeffer protestante, morto ucciso in campo di prigionia nazista e sicuramente uno dei teologi più importanti del secolo scorso nel suo “Trattato sull'etica” dedica alcune pagine al suicidio:

“Il suicidio è l'estremo tentativo dell'uomo di conferire un significato umano a una vita divenuta umanamente senza senso. L'involontario sentimento di orrore che ci afferra dinanzi a un suicidio non va attribuito alla perversità ma alla tremenda solitudine e libertà di quell'atto in cui l'affermazione della vita consiste ormai soltanto nella sua distruzione. C'è un dio che è un dio vivente. Perciò il suicidio va condannato in quanto peccato di incredulità ma l'incredulità non è una colpa morale. Può accompagnare moventi o azioni nobili o ignobili, però tanto nel bene quanto nel male, l'incredulità non tiene conto del dio vivente. In ciò consiste il peccato. Il suicidio non è dunque condannabile perchè i suoi motivi sarebbero spregevoli. Si può rimanere in vita per motivi spregevoli e abbandonare questa vita per motivi nobili. Colui che è sull'orlo del suicidio non ascolta più divieti o comandamenti. Può soltanto udire la misericordiosa voce di dio che chiama alla fede, alla liberazione, alla conversione. Nessuna legge che faccia appello alle forze dell'uomo può salvare chi è disperato. Soltanto l'azione salvifica di un altro, soltanto l'offerta di una nuova vita fondata non sulle forze ma sulla grazia di dio possono soccorrere colui che disperde la vita. La tentazione al suicidio non si vince affermando il diritto alla vita ma soltanto ricevendo la grazia di poter vivere ancora del perdono di dio”.
Dunque solo una evocazione di nuovo senso può salvare un soggetto tentato dal suicidio. Inutile ricordagli i precetti morali e i divieti. A nulla valgono. Solo una nuova offerta di senso può toccarlo: può essere una persona amata, un nuovo ideale per cui vivere, un nuovo scopo.
Al possibile suicida occorre rivolgersi offrendogli un nuovo significato.

Esistono suicidi rituali?
Facciamoci ancora aiutare da Roberto Garaventa e dal suo lavoro: egli ha constatato che un atteggiamento rigido come nel Cristianesimo lo ritroviamo solo nell'Islamismo. Le altre tradizioni religiose, a cominciare dal Giudaismo stesso, hanno all'interno una posizione, sì, critica nei confronti del suicidio in generale, però ammettono tutta una serie di circostanze in cui il suicidio appare anche cosa legittima. Basterebbe ricordare che nel caso del Vecchio Testamento sono contemplati nove casi di suicidio per i quali la Bibbia non dà mai parole di condanna e soprattutto venivano accettati i suicidi se attuati per adesione alla propria fede. E' questo il caso di suicidio collettivo nell'assedio della città di Masada nel '70 dopo Cristo da parte dei Romani, caso classico di suicidio collettivo in cui 900 ebrei si uccisero per non cadere nelle mani dei nemici. “Non vedendo alcun nemico, ma dovunque una paurosa solitudine e poi dentro fiamme e silenzio, non riuscivano a capire che cosa fosse accaduto […] Quando furono di fronte alla distesa dei cadaveri, ciò che provarono non fu l’esultanza di aver annientato il nemico, ma l’ammirazione per il nobile proposito e per il disprezzo della morte con cui tanta moltitudine l’aveva messo in atto”. Così Giuseppe Flavio descrive l’epilogo dell’assedio di Masada, e la tragica sorte dei suoi difensori. Masada cadde nella primavera dell’anno 73 d.C.

Ma anche nella tradizione medioevale ci sono vari casi di suicidi di ebrei per evitare di dover professare la religione cristiana dove fossero costretti a farlo. Quindi il suicidio qui si presenta come difesa contro la costrizione a forme di idolatria.
Nelle tradizioni religiose orientali possiamo ricordare il classico suicidio delle vedove nell'Induismo dove la moglie per fedeltà si immolava sulla pira. Esistono in Giappone sia la classica tradizione dell' harahiri, forma onorevole di sottrarsi a insostenibili situazioni esistenziali definite dalla collettività “disonorevoli” (come situazioni debitorie, o di bancarotta) ma anche forme di suicidio legate al desiderio della realizzazione del momento finale come distacco dalla vita, punto di vista che in qualche modo è il fondamentale della dottrina buddista e induista, cioè rinuncia alle passioni ,al corpo, per cui anche il suicidio poteva essere in queste dottrine l'estremo atto per la purificazione a cui si giungeva indirettamente attraverso rituali quali il digiuno, la meditazione, ecc. Può quindi esservi una tolleranza del suicidio legato a motivazioni religiose o filoeroici dovuto a questo bisogno di dover difendere la propria fede fino alla fine anche arrivando alla morte.
Nel mio lavoro una sola volta, quella già accennata, ho avuto a che fare
con spinte così forti verso una qualche forma di liberazione, che alcuni chiama suicidio “depressivo”, altri desiderio di “satori”, che alla fine hanno avuto la meglio. Quello fu per me occasione per la rielaborazione della mia idea di suicidio: dall'infanzia della hibris che pretendeva di giudicare in base ad una presunta Legge, all'amore dell'accoglienza senza riserve optando per la lettura più umana e divina del mio interlocutore che sicuramente ha cercato maggiore ampiezza non sopportando più l'angoscia e dunque l'angustia del suo mondo personale e forse di quello storico sociale in cui era calato. Ho imparato allora, grazie a lui e prima di leggere Hillman, quale sia la funzione superiore possibile dell'analista, non guida o maestro di alcunchè ma compagno di viaggio lungo la realizzazione personale del proprio Sé, sia questo diventare se stessi, questa individuazione, in questo mondo, che oltre, a spese apparentemente e subito della nostra identità e della nostra vita.
E ho imparato che anche il suicidio assistito dei nostri giorni, è un primo grezzo modo di familiarizzare con il diritto di congedarsi dal mondo. Credo che una cosa buona che quelle persone che abbiamo conosciuto o anche no ma che ci hanno fatto conoscere l'ultimo loro gesto di volontà e di libertà grandioso, l'ultima cosa buona che ci hanno lasciato sia proprio questa eredità e “sfida”: “il carburante, il deposito di senso, si è esaurito, tutto qui”.
Personalmente non credo che né l’utopista politico, né l’umanissimo regista e autore di tante nostre risate, né il mio malinconico analizzando, vadano letti nel loro gesto estremo come vittime di depressione, ma protagonisti di un gesto, per noi scomodo, misterioso ma sempre significativo, propositivo, provocatorio a volte, a volte “realizzativo”. A ognuno di noi la scelta di lettura ma li “suicideremmo” una seconda volta se li costringessimo nella povertà di categorie medicali o superstiziose.
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(1) Lucio Magri
(2) Mario Monicelli



Bibliografia

"Il suicidio nell'età del nichilismo. Goethe, Leopardi, Dostoevskij" - R. Garaventa ed. F. Angeli 1994
“Trattato sull'etica” - Dietrich Bonhoeffer
“Il suicidio e l'Anima” - J. Hillman ed. Adelphi


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1992 "Inaugurazione di Gea"

Estratto intervista su Rai 3

Alejandro Jodorowsky a Gea

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